La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato il musicista Claudio Fasoli.
Sassofonista e compositore tra i più rilevanti della scena nazionale, si è affermato negli anni Settanta nel gruppo Perigeo e ha poi intrapreso una feconda carriera come leader di gruppi nazionali e internazionali. Tra le sue opere, legate a una visione europea del jazz, figurano progetti con musicisti quali J.F. Jenny-Clark, Daniel Humair, Kenny Drew, Enrico Rava, Paolo Birro, Antonio Faraò, Mick Goodrick, Franco D'Andrea tra gli altri. Pioniere della didattica jazz in Italia, è stato docente a Siena Jazz sin dall'apertura dei corsi e ai Civici Corsi di Jazz nell'anno della fondazione, insegnando poi anche in Conservatorio. Ha scritto articoli e recensioni per riviste musicali ed è stato direttore artistico del festival jazz di Padova. Si esibisce nei maggiori festival del jazz italiani ed europei e ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti.
Quando e come ti sei avvicinato allo studio del sassofono?
Con amici ascoltavo jazz e sentii Charlie Parker, Dizzy Gillespie etc. Ma soprattutto Lee Konitz, Lennie Tristano, Billy Bauer che mi affascinavano: questi amici mi spinsero a suonare il sax contralto, il mio primo strumento… a noleggio: fra quegli amici c’era un chitarrista che mi accompagnava nei primi tentativi di improvvisazione, conosceva gli accordi di alcuni standard tipo “The Man I love”; non c’erano maestri né libri, solo dischi da cui apprendere come esprimersi. Avevo circa 14-15 anni …
C'è un dialogo tra le tue composizioni ed altre forme d'arte? In particolare, quali artisti ti ispirano?
Non mi sento di parlare decisamente di una derivazione o sollecitazione specifica parlando di altre forme d’arte. Però posso parlare di William Turner, di Undertwasser oppure di Hopper etc. come identità pittoriche che sento molto vicine. Certamente sono presenze che possono essermi state di grande stimolo ma non direttamente o coscientemente, come visione generale. Fra i molti fotografi che possono colpirmi voglio ricordare volentieri Elliott Erwitt, Guy Le Querrec e anche Stephen Shore o anche Cesare Colombo (e molti altri).
È cambiato il tuo modo di ascoltare la musica nel tempo?
Sì, è cambiato ed è maturato ovvero ha seguito o ha stimolato una visione in evoluzione negli anni, come è giusto che sia, almeno per me. Attualmente ascolto meno jazz USA e molto più jazz europeo anche perché ormai se ne sono andati quasi tutti i nostri grandi riferimenti che questa musica hanno creato …comunque sia sono ascolti molto dilatati nel tempo e spaziano da Bach o Chopin fino a Shai Maestro e Ben Wendell, o da Monteverdi a Debussy fino a Joni Mitchell o Jarrett quartetto europeo.
C’è un mare aperto di sollecitazioni e di musica da sentire, si impara sempre tanto dall’ascolto sia in senso positivo che in senso negativo… ancor più dalla musica LIVE quando si apprendono anche professionalità propositive sulla scena, tipo suonare con abiti stracciati o eleganti, presentando i brani o sempre silenziosi, corrucciati o sorridenti, cupi e misteriosi o collaborativi ….
Durante quale concerto ti sei emozionato di più da musicista? E in quale da ascoltatore?
Può succedere di emozionarsi quando si suona e/o quando si ascolta: l’anno scorso durante un concerto del mio NeXt Quartet un certo mio brano è stato suonato con tale intensità che mi sono trovato inarrestabilmente commosso sull’orlo del pianto: un lungo inchino per gli applausi mi ha consentito di contenere la commozione nei margini di controllo. A quel livello non mi era forse mai successo.
Come ascoltatore invece ricordo alcune volte in cui sono stato colpito profondamente dentro, in fondo fino alla commozione: la riscoperta della “Passione secondo S.Matteo” di J.S.Bach dopo anni che non la ascoltavo, il quintetto di Miles Davis con Shorter, il quartetto di Coltrane con Mc Coy Tyner, Elvin Jones e Jimmy Garrison, il suono di Gato Barbieri col gruppo argentino che fece annichilire nella stessa serata anche il precedente concerto di Miles nel progetto “Live-Evil” con Keith Jarrett, un assolo di Mick Goodrick su “ All the things you’re” nel mio trio con Aldo Romano, il primo solo di Mick Goodrick su “Legs” mio brano di inizio dell’album “Bodies” con Palle Danielsson e Tony Oxley, qualche episodio con il Perigeo... Questi esempi sarebbero integrabili con altri ma l’elenco sarebbe lungo: sono state percezioni di intensità (dove “intensità” non significa solo volume sonoro ma molto altro inesprimibile) difficili a raggiungersi e rare in genere, ma può sempre capitare ...per fortuna.
Ad una persona che non ha mai ascoltato jazz, quale lettura suggeriresti?
Domanda difficile: per una necessità di collocazione storica potrei suggerire una storia del Jazz, per esempio la edizione aggiornata recentemente di Zenni o altre molto buone che so circolare ma non ho necessariamente letto: non mancano comunque in libreria ottimi esempi.
Poi, per addentrarsi nello specifico segnalerei la biografia di Lee Konitz in primis (italiano disponibile), meno universale ma divertente e piena di episodi quella di Miles Davis (italiano disponibile), quella di Lester Young poi molte altre significative. Poi qualsiasi libro di Nat Hentoff.
Quali consigli dai ai giovani musicisti con cui ti rapporti da docente?
Consiglierei soprattutto l’ASCOLTO della Musica Jazz che non può essere imparata studiando soltanto sui libri. Un ASCOLTO forsennato e quotidiano, possibilmente storicizzato (vedi Storia del Jazz necessaria) cercando di capire umilmente che il jazz è come parlare, quindi gli accenti, le pronunce, le pause, i ritmi, gli intervalli, i suoni sono molto caratterizzati e caratterizzanti: sul piano verbale basterebbe pensare per esempio come la R francese, italiana, spagnola e inglese assuma suoni diversissimi. I bambini imparano a parlare molto prima di andare a scuola: ascoltando i genitori o parenti parlare con accenti e suoni tipici e diversi come fra italiano francese finlandese inglese russo o tedesco etc. Quindi esiste una tipicità del jazz rispetto altre musiche già solo come suono, pronuncia, ritmo etc
L’ascolto andrebbe anche supportato dalle notizie che solo un album tipo Lp o Cd può dare: il nome di tutti i musicisti partecipi ( non esiste sulle piattaforme web), la data delle registrazioni (non esiste sulle piattaforme) etc…..cioè è necessaria una storicizzazione per non confondere King Oliver con Lee Morgan o Horace Akimusire….poi fra le mille altre cose sarebbe necessario essere “scientifici” nello studio (durante gli anni) dei dettagli necessari: Dave Liebman diceva che una decina d’anni di studio intelligente può andar bene per dare buoni risultati…banalmente penso si possa dire che è come studiare una lingua straniera con la quale improvvisare verbalmente laddove nel jazz si improvvisa musicalmente , usando comunque il “suono”, o vocale o strumentale, che è sempre il veicolo delle nostre emozioni.
Come immagini il jazz del futuro?
Onestamente non lo immagino ma ci saranno ovviamente sviluppi e integrazioni e novità anche sulla base della maggior conoscenza di questa forma musicale che consentono i mille corsi di apprendimento esistenti ovunque; inoltre, una ulteriore disponibilità di suoni o automatismi o autonomia stilistica ormai a portata di tutti consentirà altre forme innovative di sviluppo, più o meno interessanti.
Sostanzialmente dipende da chi suonerà e come suonerà una musica che rispetti sommariamente le caratteristiche del jazz portando aria nuova sulle basi storicamente collocate e sviluppate secondo la creatività straordinaria che in questa musica non finisce di esprimersi.