La Federazione Il Jazz Italiano ha intervistato Luciano Linzi, una delle figure di maggior rilievo nel mondo del jazz italiano. La sua ricca esperienza professionale però, spazia anche ad altri generi musicali. Dal 1974 al 1982 collabora con l'associazione 'Centro D’Arte' di Padova, dal 1983 al 1990 dà vita all’etichetta discografica Gala Records producendo artisti come Enrico Rava, Enrico Pieranunzi, Roberto Gatto, Danilo Rea, Maurizo Giammarco, Lingomania e molti altri. Contemporaneamente lavora nell’organizzazione dei Festival Jazz di Ravenna e di Reggio Emilia. Dal 1985 al 1990 lavora con il pianista Keith Jarrett e ne organizza i concerti italiani. Nel 1986 firma per la Gala Records la cantante Dee Dee Bridgewater, cura la sua partecipazione al Festival di Sanremo in duetto con Ray Charles nel 1989 e insieme ai Pooh nel 1990, aggiudicandosi la vittoria. Dal 1990 viene assunto dalla Warner Music Italy per entrare nella CGD East West. In seguito, ne diviene Direttore Generale. Nel 2004 viene nominato Direttore della “Casa del Jazz” del Comune di Roma. Ricopre tale incarico fino a dicembre 2010. Dal 2004 al 2009 è Consulente Musicale della Fondazione Musica per Roma. Nel 2011 viene nominato da Vinicio Capossela Co-ordinatore Generale per la sua società La Cupa. Dal 2014 al 2016 è direttore generale presso la Fondazione Umbria Jazz e ne rimane come consulente fino al 2017. Dal 2015 al 2017 è nominato Co-ordinatore del comitato artistico della Casa del Jazz. Dal 2016 è ideatore e direttore artistico del festival 'JazzMi' a Milano, che tuttora dirige. Nel 2018 la 'Fondazione Musica per Roma' lo nomina consulente per curare la direzione artistica della Casa del Jazz, carica che riveste fino ad oggi. È membro del consiglio direttivo dell'Associazione I-JAZZ.
Come è nata la tua passione per la musica? È iniziata con il jazz?
Ho iniziato ad ascoltare musica in casa da piccolo. Quella che ascoltavano i miei genitori ovviamente. Molta radio e i loro dischi.
La prima canzone che mi colpì molto, secondo i racconti di mia madre, fu “Il cielo in una stanza” cantata da Mina, di cui sia lei che mio padre erano grandi fans. Tanto da portarmi a vederla al Teatro Verdi di Padova, nella famosa tournée insieme a Giorgio Gaber. Poi crescendo, grazie a mia sorella Laura di 7 anni più grande, scorpacciate di Beatles e Rolling Stones.
1969, a 10 anni scelgo io: Beatles e Lucio Battisti. Comincio a usare la rivista “Ciao 2001” come una bibbia. Mi immergo nel “Prog”. Yes,Gentle Giant, King Crimson, Van Der Graaf G., Colosseum. Molti di questi li vedo dal vivo. Dal “Prog” ai Nucleus e Soft Machine, ed il gioco è fatto. La bibbia diventa “Musica Jazz”, acquisto i primi dischi di jazz, ”Birth”di Keith Jarrett e “El Pampero” di Gato Barbieri. Nel 1973 inizia a Padova una rassegna annuale di concerti jazz organizzata dall’ass.Centro d’Arte (fondata da Franco Fayenz e tuttora attiva). Ho 14 anni e mi ci fiondo proponendomi come volontario. Mi interessava approfondire l’aspetto organizzativo, conoscere i musicisti, fare pratica con la lingua inglese. Contemporaneamente, finita scuola nel pomeriggio inizio a lavorare in un negozio di dischi, “Gabbia” (tuttora in attività), curando il reparto jazz. Ma non ho mai smesso di ascoltare ogni tipo di musica. Altre tre mie immense passioni sono Tim Buckley, Nick Drake, John Martyn. Questi i miei inizi.
Come sono stati questi 20 anni alla direzione della Casa del Jazz? Cosa è cambiato sulla scena artistica e sulle proposte progettuali?
Un’esperienza straordinaria. Unica. L’emozione, l’eccitazione del creare un’istituzione pubblica che non esisteva, interamente dedicata al Jazz, in un luogo così profondamente simbolico.
Aver creato un punto di riferimento imprescindibile per la scena del Jazz italiano, in primis, e per quello internazionale. Da questo osservatorio privilegiato abbiamo visto crescere, maturare la scena del Jazz italiano, evolversi nella consapevolezza dei propri mezzi, organizzarsi, dotarsi degli strumenti necessari per farsi rispettare e sostenere adeguatamente nei rapporti con le istituzioni. E credo che la Casa del Jazz abbia contribuito in modo consistente a tutto questo. Il lavoro di associazioni come I-Jazz, Midj, della Federazione IJI, è innegabile. L’esperienza de L’Aquila dal 2016, nata anche grazie all’apporto fondamentale della Casa del Jazz, ha dato grande visibilità al comparto del Jazz italiano, dimostrando le sue capacità e le potenzialità. Certo ci sono stati anche anni difficili per la CdJ, in cui il sostegno e l’attenzione delle istituzioni era venuto meno. Ma dal 2018 la gestione è passata alla Fondazione Musica per Roma (Auditorium Parco della Musica) che ha contribuito in maniera sostanziale a riportare questo luogo alla bellezza originaria e alla posizione, al ruolo che merita nel panorama jazzistico internazionale.
Abbiamo sempre cercato di essere un partner per gli artisti, aiutandoli nelle scelte, sostenendoli, incoraggiandoli, suggerendo o commissionando progetti. Le caratteristiche con cui questa struttura è stata immaginata (le sale, lo studio di registrazione, la foresteria) hanno reso possibile realizzare progetti originali, residenze artistiche, produzioni. Questo aspetto è divenuto formalmente ufficiale con il riconoscimento di “centro di produzione musicale” da parte del Ministero della Cultura nel 2022. E così ora nuove risorse ci permettono di rendere sempre più consistente la parte prevalente della nostra attività.
Il pubblico ha visto un cambiamento negli ultimi anni? Come è cambiata secondo te la domanda culturale?
Il pubblico interessato alla musica Jazz sta invecchiando da anni, progressivamente. Devo dire però che nel terribile periodo del Covid, il mondo della musica Jazz è stato uno dei primi settori dello spettacolo dal vivo a rimettersi in moto. A fornire opportunità di concerti dal vivo ad un pubblico che ne era letteralmente affamato, dopo la clausura. Per un’agilità, una dinamicità che è connaturata a questa musica, che non ha bisogno di grandi produzioni per farsi sentire e arrivare subito al cuore. Noi abbiamo visto tornare pubblico in grandi numeri immediatamente alla ripresa nel 2021 ed è andato via via crescendo sino a farci superare i record di incassi e numero spettatori precedenti al 2020.Quindi c’è speranza. Un’altra esperienza magnifica è stata la costituzione della Jazz Campus Orchestra diretta da Massimo Nunzi. Un plotone di ragazzi dai 7 a 14 anni che si sono trovati ogni sabato per 2 ore ad imparare cos’è la musica Jazz, di cui non sapevano nulla, e cosa vuol dire suonare insieme in un organico simile, dare sfogo alla propria creatività, giocare e studiare. Sono stati invitati dal Presidente della Repubblica a suonare al Quirinale, ad esibirsi a Umbria Jazz, al Teatro dell’Opera di Firenze. È una delle cose più belle a cui abbiamo dato vita in questi 20 anni. E che dimostra che anche ragazzi di oggi si possono appassionare profondamente a questa musica. Basta fargliela scoprire.
Come è possibile incuriosire e coinvolgere le nuove generazioni?
Ci sono tantissimi ragazzi che decidono di studiare la musica Jazz oggi. E hanno molte opportunità per farlo. Nel 1973 Giorgio Gaslini diede vita ad un leggendario corso Jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Fu quasi accusato di blasfemia. Dopo nemmeno 2 anni il corso venne sospeso. Ma da lì uscirono Massimo Urbani, Maurizio Giammarco, Bruno Tommaso, Patrizia Scascitelli e tantissimi altri. Oggi non vi è un Conservatorio in Italia che non abbia un dipartimento Jazz. E poi esistono altre eccellenze didattiche come il Saint Louis College of Music o Siena Jazz. E i giovani musicisti che escono da queste realtà sono preparatissimi. Noi da sempre ne scegliamo molti per farli esibire nella nostra programmazione. Ed il risultato è che ai loro concerti vengono ad ascoltarli i loro amici coetanei. Quindi svecchiare la programmazione, dando spazio ai giovani talenti è un primo passo per coinvolgere le nuove generazioni. L’altro è di programmare progetti di contaminazione, artisti che stanno sperimentando la fusione di elementi Jazz con elettronica, con hip hop, con new soul. Negli ultimi anni i concerti che abbiamo proposto di DOMI & JD BECK,MAKAYA MCCRAVEN,NATE SMITH,SONS OF KEMET,LOUIS COLE avevano un’età media del pubblico dimezzata rispetto alle altre serate.
Cosa rappresenta Casa del Jazz e quali sono i suoi punti di forza?
Un punto di riferimento imprescindibile per appassionati, operatori, musicisti. Un luogo in cui si celebra la cultura del Jazz ogni giorno, tutti gli anni, da 20 anni.
Un luogo fisico dedicato al Jazz, riconoscibile, stabile. Non esiste un’altra Casa del Jazz in nessuna parte del mondo.
Un luogo aperto, un simbolo concreto della lotta contro le mafie, in quanto bene confiscato e restituito alla città, ai suoi cittadini, ai suoi ospiti.
Un luogo che rispetta immensamente i musicisti, ne esalta il lavoro, mettendoli nelle migliori condizioni qualitative possibili. La cura dell’acustica, della strumentazione, dell’amplificazione. I migliori fonici. Il comfort degli ambienti. La più importante rivista Jazz del mondo DOWNBEAT nel numero di maggio, in un articolo interamente a noi dedicato, ci definisce uno dei migliori posti al mondo dove ascoltare Jazz dal vivo. Un grande orgoglio. Musicisti come BILL FRISELL, JOHN SCOFIELD, PETER ERSKINE, JOHN PATITUCCI, CHARLES LLOYD, CHRIS POTTER, DAVE HOLLAND e tantissimi altri che ci vengono a trovare regolarmente da anni per esibirsi, ci hanno eletti ad uno dei loro luoghi ideali al mondo per proporre la propria musica. È un posto speciale. Qui la Musica è al primo posto per importanza. Non è un luogo dove si viene a passare la serata, per caso. Qui si viene per ascoltare la musica nel migliore dei modi possibili, con concentrazione. E questo abbiamo voluto crearlo dal giorno dell’inaugurazione il 21 aprile 2005, nella sala concerti e nella cornice suggestiva del Parco. Ed il pubblico lo sa bene. Un concerto alla Casa del Jazz è indimenticabile per queste condizioni.
Ci saranno nuove iniziative a cui state lavorando?
Molti progetti originali in fieri ed alcune-co produzioni internazionali. Ma innanzitutto è importante garantire soprattutto continuità a questa attività, come lo è stato in questi ultimi 6 anni.
Quali politiche culturali sarebbe necessario apportare a livello istituzionale a favore del jazz?
Continuare a riconoscere il valore del nostro settore, continuare a sostenerlo. Aumentare il sostegno per poter far ascoltare il Jazz italiano nel resto d’Europa, nel mondo. Rendendolo veramente competitivo con altre realtà europee che questo tipo di sostegno lo hanno da anni.